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brano
 
Apuleio
Metamorfosi (l'asino d'oro), II, 4
 
originale
 
[4] Atria longe pulcherrima columnis quadrifariam per singulos angulos stantibus attolerabant statuas, palmaris deae facies, quae pinnis explicitis sine gressu pilae volubilis instabile vestigium plantis roscidis delibantes nec ut maneant inhaerent et iam volare creduntur. Ecce lapis Parius in Dianam factus tenet libratam totius loci medietatem, signum perfecte luculentum, veste reflatum, procursu vegetum, introeuntibus obvium et maiestate numinis venerabile; canes utrimquesecus deae latera muniunt, qui canes et ipsi lapis erant; his oculi minantur, aures rigent, nares hiant, ora saeviunt, et sicunde de proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire, et in quo summum specimen operae fabrilis egregius ille signifex prodidit, sublatis canibus in pectus arduis pedes imi resistunt, currunt priores. Pone tergum deae saxum insurgit in speluncae modum muscis et herbis et foliis et virgultis et sicubi pampinis et arbusculis alibi de lapide florentibus. Splendet intus umbra signi de nitore lapidis. Sub extrema saxi margine poma et uvae faberrime politae dependent, quas ars aemula naturae veritati similes explicuit. Putes ad cibum inde quaedam, cum mustulentus autumnus maturum colorem adflaverit, posse decerpi, et si fontem, qui deae vestigio discurrens in lenem vibratur undam, pronus aspexeris, credes illos ut rure pendentes racemos inter cetera veritatis nec agitationis officio carere. Inter medias frondes lapidis Actaeon simulacrum curioso optutu in deam [sum] proiectus iam in cervum ferinus et in saxo simul et in fronte loturam Dianam opperiens visitur.
 
traduzione
 
L'atrio era bellissimo, colonne ai quattro angoli reggevano Vittorie palmate che, ferme, ad ali aperte sembravano sfiorare con le agili piante il mobile sostegno di una sfera nell'atto di spiccare il volo non di sostare. Al centro, stupendo capodopera, una Diana in marmo pario, con la veste gonfia di vento sembrava protendersi leggera verso chi entrava, eppure veneranda nella sua divina maest?. Ai lati della dea, a suo presidio, stavano due molossi, anch'essi in marmo pario: erano i loro occhi minacciosi, ritte le orecchie, dilatate le narici, le fauci avidamente spalancate. Se fosse risuonato l? intorno un latrato, certo lo avresti creduto uscito da quelle gole di marmo. Qui, appunto, quell'insigne artista aveva dato la prova pi? alta della sua arte, raffigurando quei cani con il petto proteso, le zampe posteriori ben ferme a terra e quelle anteriori nell'atto della corsa. Aveva anche scolpito un macigno alle spalle della dea in foggia di spelonca e muschio, morbide foglie, ramoscelli, pampini e arbusti sembravano fiorire dalla pietra. All'interno, nel nitore del marmo, risplendeva l'immagine divina. Dagli orli alti del sasso frutti ed uve pendevano, di squisita fattura, simili in tutto al vero, l'arte avendo emulato la natura. Certo avresti pensato di coglierli e mangiarli quando l'autunno che porta il mosto avesse in essi infuso i bei colori maturi. Se, poi, chinandoti a guardare il ruscello che ai piedi della dea scorreva in onde lievi, quei grappoli riflessi tu li avresti creduti non solo naturali ma persino oscillanti come quelli sospesi ai tralci veri. Tra le fronde si distingueva l'immagine marmorea di Atteone cupidamente proteso a spiare la dea che si bagnasse in quella fonte, nuda; ma gi? mutato in cervo.
 

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